Siamo in un mare di guai (climatici)
L’estate si avvicina e cominciamo a pensarci felici in spiaggia, ma come stanno i nostri oceani? Ne abbiamo parlato con Annalisa Bracco, rinomata esperta delle scienze atmosferiche e oceanografiche.
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Overshoot Day, Nucleare, Geopolitica dell’acqua
Le 3 notizie del mese, selezionate da noi. Dall’Italia, dall’Europa, e dal Mondo. In pieno stile Climax.
Lo scorso 6 maggio è stato l’Overshoot Day per l’Italia. Nel concreto, ciò significa che in quella data abbiamo consumato tutte le risorse naturali rinnovabili che il nostro Paese poteva permettersi per l’intero 2025. Da inizio mese, dunque, siamo entrati in debito ecologico, attingendo a risorse che spetterebbero alle generazioni future. Non solo: secondo il Global Footprint Network, se tutti vivessero come noi italiani, servirebbero quasi 3 Pianeti per sostenere il nostro stile di vita. Rispetto al 2024, l’Overshoot Day è arrivato leggermente in anticipo, segno che il nostro impatto sull’ambiente continua a crescere. Un campanello d’allarme che non possiamo più ignorare e che le istituzioni dovrebbero prendere come monito per implementare misure efficaci che possano abbattere l’impronta ecologica del nostro Paese.
Con 102 voti favorevoli, 8 contrari e 31 astensioni, il Parlamento belga ha approvato l’abrogazione della legge del 2003 che prevedeva la chiusura graduale delle centrali nucleari entro il 2025. La decisione, sostenuta dalla nuova maggioranza conservatrice, apre alla costruzione di nuovi reattori e rilancia il ruolo del nucleare nella strategia energetica nazionale.
Attualmente il Belgio conta due centrali operative, già autorizzate nel 2022 a restare attive fino al 2035. Contrari solo i partiti ecologisti, ora all’opposizione, che avevano sostenuto il precedente governo De Croo.
Il Paese punta così a rafforzare sicurezza energetica e sostenibilità, rimettendo il nucleare al centro della transizione.
L’acqua dell’Himalaya diventa arma geopolitica. Nel pieno delle rinnovate tensioni con il Pakistan dopo l’attentato in Kashmir, l’India ha riattivato due impianti idroelettrici mai completati nella regione himalayana, le dighe di Baglihar e Salal. Una mossa che mette a rischio il Trattato sulle acque dell’Indo, firmato nel 1960 con la mediazione della Banca Mondiale, che regola la spartizione di uno dei sistemi fluviali più complessi e strategici al mondo.
Il trattato, considerato a lungo un esempio di cooperazione in un contesto ostile, garantisce al Pakistan l’accesso all’80% delle risorse idriche necessarie per l’agricoltura irrigua e l’energia idroelettrica. Nonostante guerre e sospetti reciproci, l’accordo è rimasto operativo per oltre sessant’anni. Oggi, però, quel fragile equilibrio vacilla. L’India minaccia di usare l’acqua come leva politica, abbandonando il principio di gestione condivisa delle risorse. In un contesto aggravato dal cambiamento climatico – che sta riducendo i ghiacciai himalayani da cui dipendono i flussi dell’Indo – questa scelta rischia di trasformare una crisi geopolitica in una crisi idrica e ambientale su larga scala. Nel contesto di un ordine globale sempre più frammentato, anche l’acqua diventa uno strumento di potere. E in Asia meridionale, milioni di persone rischiano di pagarne il prezzo.

Come stanno gli oceani?
Abbiamo chiesto ad Annalisa Bracco, esperta di riferimento nelle scienze atmosferiche e oceanografiche presso il Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici, di rispondere a questa domanda:
💬A giugno si terrà a Nizza la Conferenza delle Nazioni Unite sugli Oceani, evento chiave per la protezione di questi ecosistemi. Quali sono i fattori principali che minacciano la salute degli oceani e in che modo possiamo mitigarli?
Tra le minacce per l’oceano che saranno discusse alla Conferenza ONU sugli Oceani, ne vedo tre principali: l’aumento della temperatura; l’aumento dell’acidità; e la perdita di biodiversità e delle funzioni ecosistemiche. Queste minacce sono interconnesse e sono il risultato delle attività umane.
L’oceano ha assorbito circa il 90% del calore derivante dalle emissioni antropiche, con un conseguente aumento della temperatura della superficie oceanica di circa 0,60 °C dal 1980. Questo riscaldamento ha contribuito a sua volta a un aumento dell’umidità in atmosfera, influenzando le precipitazioni e altri eventi meteorologici, e a una minore disponibilità di ossigeno, alterando i meccanismi con cui gli oceani immagazzinano il carbonio.
Allo stesso tempo, circa il 25% dell'anidride carbonica emessa dall’uomo si è disciolta nell’acqua marina, aumentando l’acidità della superficie oceanica di circa 0,12 unità di pH.
Questi cambiamenti, insieme alla pesca eccessiva, all’inquinamento e allo sviluppo costiero, mettono sotto stress gli ecosistemi marini. I coralli si sbiancano troppo frequentemente per riuscire a riprendersi, le specie invasive ampliano il loro raggio d’azione, e la biodiversità complessiva è in forte diminuzione.
La conferenza ONU non discuterà solo le minacce, ma anche le opportunità per migliorare la gestione sostenibile degli oceani e mitigare questi impatti.
Abbiamo le conoscenze e la tecnologia per aiutare gli oceani e i loro ecosistemi ad adattarsi ai cambiamenti ormai in atto. Per esempio, sappiamo determinare dove è più utile creare nuove aree protette, abbiamo imparato a ripopolare certi ecosistemi e abbiamo maggiori conoscenze su quali fattori li rendono resilienti.
Ad un livello più fondamentale, sappiamo che dobbiamo ridurre le emissioni e rallentare il tasso di riscaldamento e sappiamo come fare, ma mancano volontà politica e visione condivise.
Tutto questo - dalla gestione sostenibile degli ecosistemi marini, alla riduzione delle emissioni di gas serra - richiede infatti grande cooperazione internazionale. La conferenza di Nizza spera quindi di arrivare ad un accordo su come raggiungere risultati tangibili con l'aiuto, e nell'interesse, di tutti.
Lavorare e (soprav)vivere in tempi di crisi climatica
Nella scorsa puntata vi abbiamo chiesto di dirci come affrontereste la crisi climatica se il vostro lavoro fosse una specie in via di estinzione..
Ecco cosa ci avete risposto:
Innanzitutto, un grande abbraccio a chi sta preparando la versione 35836 del proprio CV e scrivendo l’ennesima lettera motivazionale. Siamo con voi.
Ma torniamo alla domanda: esistono davvero lavori in via d’estinzione? E se sì, che aspetto ha il meteorite che le minaccia? A voler ascoltare certe campane, la sospettata principale è la transizione ecologica, accusata di mettere sempre più a rischio la sicurezza economica di migliaia di lavoratrici e lavoratori in un contesto finanziario in cui inflazione e salari stagnanti la fanno da padroni.
Ci sono almeno tre punti che non tornano in questa storia. Vediamoli insieme.
Punto numero 1: Non fare la transizione costa più che farla.
La crisi climatica rappresenta una minaccia crescente e trasversale per la salute dei lavoratori a livello globale, secondo un recente rapporto dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo). Le condizioni meteorologiche estreme, in particolare le ondate di caldo, colpiscono già oggi il 71% della forza lavoro mondiale — pari a circa 2,4 miliardi di persone — e la situazione è destinata a peggiorare. In Italia, ogni giorno in cui la temperatura supera i 40°C, il rischio che si verifichino incidenti sul lavoro aumenta del 10%.
I settori più colpiti includono agricoltura, edilizia e lavori stradali, ma anche chi lavora al chiuso in ambienti poco ventilati non è al sicuro. I rischi vanno ben oltre il caldo: esposizioni massicce a raggi UV (18.960 decessi per tumori della pelle non-melanoma), inquinamento atmosferico ( fino a 860 mila morti l’anno), pesticidi (oltre 300 mila decessi) e malattie infettive trasmesse da insetti.
In uno scenario simile, è evidente che le normative a tutela del diritto fondamentale a un ambiente di lavoro sicuro e sano, debbano essere rinforzate.
Punto numero 2: La sostenibilità non è più un plus.
Sempre più persone, soprattutto tra i più giovani, sono determinate a lavorare per aziende che prendono impegni chiari verso la sostenibilità. In questo contesto si inserisce il fenomeno del climate quitting: la tendenza a rifiutare offerte o a dare le dimissioni da imprese che non adottano politiche ambientali concrete e trasparenti.
Secondo una ricerca di KPMG nel Regno Unito, il 20% dei lavoratori intervistati – e addirittura il 33% tra i 18-24enni – è disposto a non accettare un impiego in aziende non "climate friendly", anche a costo di rinunciare a una retribuzione più alta. In Italia, l’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano rileva che tra gli under 30 l'importanza dell’impatto sociale e ambientale del proprio lavoro è in crescita, con l’11% che considera la sostenibilità un fattore determinante nella scelta professionale.
Questo cambiamento culturale rappresenta una sfida e insieme un’opportunità per le aziende: l’adozione di strategie ESG credibili è diventato un elemento chiave per attrarre e trattenere i talenti.
Punto numero 3: La transizione può (e deve) essere giusta, ma servono gli strumenti.
In Italia il 19,5% della forza lavoro è già impiegato in occupazioni “green-driven”, ovvero l’insieme delle nuove occupazioni nate grazie alla transizione ecologica, quelle per cui la transizione richiede nuove competenze e attività, e quelle necessarie a produrre beni e servizi indispensabili per le attività a basse emissioni.
I lavoratori in occupazioni ad alta intensità di gas serra d’altro canto tendono ad essere più anziani e meno coinvolti in programmi di formazione quando ricoprono posizioni altamente qualificate. Allo stesso tempo, mancano ancora programmi ad hoc per formare la manodopera necessaria nei nuovi settori “green” chiave.
Insomma, a cambiare in un clima che cambia è anche il mondo del lavoro. Rifiutare di fornire a lavoratrici e lavoratori strumenti di formazione e incentivi necessari ad adattare le proprie professioni agli effetti del cambiamento, continuando a demonizzarele presunte “ideologie verdi”, è controproducente per il benessere socio-economico delle persone e per la salute del pianeta.
C’è un po’ di cuneo salino in questa crisi climatica
Il cuneo salino è un fenomeno idrologico che si verifica nelle aree costiere quando l’acqua salata del mare si infiltra nel sottosuolo e si “incunea” letteralmente sotto l’acqua dolce delle falde acquifere sotterranee a causa della differenza di densità. In Italia ne si sente spesso parlare in relazione alla foce del fiume Po dove questo fenomeno naturale si è verificato con più frequenza e raggiungendo profondità maggiori negli ultimi anni. E qui sorge spontanea la domanda, c’entra il cambiamento climatico? Ebbene sì, siccità sempre più frequenti e innalzamento del livello del mare sono due fattori che influenzano significativamente la risalita dell'acqua salata verso l’interno con gravi danni sui preziosissimi ecosistemi degli estuari fluviali, tra i più produttivi del mondo.
Grazie per aver letto Climax! 💚
Questa newsletter è a cura di: Emma Cabascia, Annalisa Gozzi ed Erika Bruno.
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