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Di cosa parliamo questo mese?
COP28: tiriamo le somme del negoziato di Dubai
Albero di Natale: vero vs plastica
Il commento di Guido Cencini, forestry e carbon manager di zeroCO2
Gli alberi parlano
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COP28: tiriamo le somme del negoziato di Dubai
“Transitioning away from fossil fuels in energy systems”. Lo scorso 13 dicembre, alla COP28 di Dubai, con questa frase si è fatta la storia. Quanto è ironico che sia avvenuto in un petrostato e con tutte le controversie del caso?
Da giovedì 30 novembre a mercoledì 13 dicembre 2023 si è tenuta, a Dubai, la ventottesima edizione della Conference Of the Parties (COP), la riunione annuale a cui partecipano i Paesi firmatari della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici e altre parti interessate alla questione, come popolazioni indigene, ONG e imprese.
La COP di quest’anno, dalle premesse, non sembrava delle più promettenti. La decisione di svolgerla in un petrostato - gli Emirati Arabi Uniti - da un lato non ha sorpreso gli addetti ai lavori, dall’altro ha suscitato qualche titubanza su un possibile conflitto di interessi. Le COP, infatti, sono tenute ogni anno in una regione del mondo diversa e nel 2023 sarebbe stato il turno del Golfo Persico. I dubbi sono stati alimentati principalmente dalla figura che ha ricoperto la presidenza di questa Conferenza: Sultan al Jaber, CEO della compagnia petrolifera di Stato degli Emirati Arabi Uniti, ADNOC.
Le perplessità iniziali sono state momentaneamente dimenticate grazie al raggiungimento, già nel primo giorno della COP, di un risultato importante in ambito di adattamento al cambiamento climatico, ovvero l’attivazione del loss and damage fund. Il fondo era stato istituito nella Conferenza precedente, a Sharm el-Sheik, per risarcire le perdite e i danni subiti dai Paesi colpiti da eventi estremi causati proprio dal cambiamento climatico.
Questa notizia ci ha distratti solo momentaneamente perché, quattro giorni dopo, i dubbi iniziali sono tornati, con una nuova tesi a sostenerli. Il 4 dicembre Sultan al Jaber ha dovuto tenere una conferenza stampa per dichiarare di non essere un negazionista (a causa di queste sue affermazioni). È la prima volta che il presidente di una COP si trova a smentire tali accuse. E, come se non bastasse, un altro motivo di preoccupazione è stata la lettera dell’OPEC destinata ai Paesi membri, emersa solo quattro giorni dopo la conferenza di al Jaber, in cui l’organizzazione chiedeva loro di opporsi a qualsiasi accordo che riguardasse il phase-out dai combustibili fossili. Infatti, mai come quest’anno si è parlato della necessità di abbandono graduale di carbone, petrolio e gas naturale - il phase-out, appunto.
Sono stati proprio alcuni membri dell’OPEC (Arabia Saudita, Iran, Iraq e Kuwait), assieme alla Russia, a complicare i negoziati: mentre nella prima bozza erano presentate tre opzioni per l’eliminazione dei combustibili fossili - di cui solo la prima era un vero e proprio phase-out -, nell’ultimo testo pubblicato prima di quello definitivo, invece, veniva del tutto omesso questo termine.
Un grande trambusto che, il 13 dicembre, un giorno oltre la chiusura stabilita, ha portato le 198 nazioni partecipanti a una decisione finale:
«Allontanarsi dai combustibili fossili nei sistemi energetici, in un modo che sia giusto, ordinato ed equo, accelerando l'azione in questo decennio critico, in modo da arrivare allo zero netto nel 2050, come richiesto dalla scienza»
Più che un phase-out sembrerebbe un phase-down, cioè un processo di riduzione graduale - sì - ma senza raggiungere un’eliminazione completa. Per quanto ambiguo questo passaggio possa essere, la frase contiene due elementi di importanza storica. L’allontanamento fa riferimento esplicitamente, per la prima volta in 28 anni di COP, a tutti i combustibili fossili - non solo al carbone, di cui si è discusso molto alla COP26 di Glasgow. Altro fattore chiave: il tempo. La “transizione” deve avvenire in questo decennio se vogliamo mantenere il riscaldamento globale entro il grado e mezzo.
Il transitioning away è stato il punto più commentato e dibattuto della decisione finale. Un altro, però, sul quale vale la pena soffermarsi è il passo successivo che invita a un acceleramento verso le tecnologie a zero e a basse emissioni; per citare alcuni esempi: le rinnovabili - protagoniste di un altro punto in cui si riconosce la necessità di triplicare la capacità globale di energia rinnovabile entro il 2030 - il nucleare e la Carbon Capture and Storage (CCS), altro argomento discusso alla COP28. Quest’ultima consiste nel sequestro delle emissioni di CO2 direttamente dalla fonte e nel loro stoccaggio geologico - o sottomarino - evitando di reintrodurle in atmosfera. Si tratterebbe di una soluzione “semplice” al problema delle emissioni di carbonio, sulla quale stanno investendo molto soprattutto le industrie petrolifere - non perché tengano in modo particolare al destino del pianeta ma perché permetterebbe loro di continuare indisturbate i loro business tutt’altro che etici. Il dibattito sulla CCS è piuttosto acceso perché è una tecnologia costosa, energy-intensive e che non è stata ancora sviluppata su larga scala, quindi non si conosce il suo potenziale o la sua efficacia a livello globale, di conseguenza è impossibile scommettere su di essa.
C’è da sottolineare un’ultima cosa riguardo il testo approvato: questo ha solamente valenza politica, non legale, non è giuridicamente vincolante per le parti del negoziato - al contrario, ad esempio, del Protocollo di Kyoto approvato nella COP3. Gli Stati, quindi, non sono obbligati a rispettare quanto stabilito né sono sottoposti a vincoli riguardo l’impegno che devono mettere nel perseguire questi obiettivi.
A cosa serve, allora, tutto questo? Serve a mandare un segnale, anzi un messaggio, condiviso da 198 Paesi del mondo. Non solo la scienza, adesso anche la politica ha riconosciuto e ha ammesso il ruolo che i combustibili fossili hanno avuto e continuano ad avere nell’alterare il sistema climatico del nostro pianeta. Si poteva fare di meglio? Forse, ma viste le premesse e le condizioni in cui si sono svolti questi negoziati, probabilmente - realisticamente - è stato il massimo a cui si poteva aspirare. Il messaggio è stato mandato, ora spetta ai singoli Paesi reagire e agire, e le aspettative a riguardo sono alte.
Trovate qui l’intero testo.
Albero di Natale: vero vs plastica
Siamo a dicembre e, in questo mese, in molte case compare - o, meglio, viene allestito - un abete, naturale oppure sintetico. Ma cosa implica la scelta tra queste due opzioni?
L’albero rappresenta un simbolo di vita per molte culture, anche da prima dell’avvento del Cristianesimo. Al giorno d’oggi è parecchio diffusa l’usanza di addobbare un abete - o un’altra tipologia di albero sempreverde - nel periodo natalizio. In Italia questa tradizione è portata avanti da ben l’85% delle famiglie, la maggior parte delle quali (il 63%) sceglie quello sintetico, magari rispolverato dall’anno precedente, e non quello naturale. Capire quale tra queste due opzioni è la più sostenibile per il nostro pianeta non è semplice - entrambe hanno caratteristiche non trascurabili. Vediamone alcune.
Il più grande aspetto negativo degli alberi sintetici è legato alla loro composizione: plastica e metalli. Oltre ai ben noti problemi legati al solo ottenimento di questi materiali (per citare il più grave: l’estrazione di petrolio per creare la plastica), risulta estremamente complesso riciclare e smaltire correttamente gli alberi sintetici.
La composizione incide pesantemente sulla carbon footprint - ovvero i gas serra rilasciati nell’atmosfera direttamente o indirettamente da un individuo, da un’impresa o da una nazione - di questi prodotti. Secondo uno studio di Carbon Trust, infatti, la carbon footprint di un albero sintetico alto circa 2 metri ammonta a 40 kg di CO2 equivalente. La maggior parte di queste emissioni proviene, appunto, dalla materia prima (66%), seguita dalla fabbricazione (25%) e dal trasporto (9%).
Quest’ultimo, però, non è un elemento a sfavore che riguarda solo gli alberi sintetici ma anche la loro versione naturale: gli abeti sono coltivati soprattutto nel nord Europa - in Italia perlopiù in Toscana e in Veneto - quindi le emissioni evitate nella produzione vengono in parte compensate da quelle provocate dal loro spostamento; invece, gli alberi sintetici sono realizzati in Paesi con un basso costo della manodopera, come la Cina.
Come abbiamo appena constatato, non è così facile o scontato capire quale tra queste due opzioni è la più ecosostenibile; approfondiamo ulteriormente la questione con un esperto del settore.
Qual è la scelta più ecologica e quali strumenti utilizzare per capirlo secondo Guido Cencini, forestry e carbon manager di zeroCO2.
«Gli Alberi di Natale veri rimuovono anidride carbonica durante la loro crescita, contribuendo alla cattura di CO2. Possono essere riciclati e compostati dopo le festività, offrendo benefici al suolo. Un’ulteriore alternativa può essere quella di ripiantarli, in questo caso dobbiamo però fare attenzione a trovare un’area idonea a livello ecologico per la crescita dell’abete in questione.
Tra gli svantaggi, un albero vero, soprattutto se proveniente da una piantagione, richiede acqua, terreno e risorse per crescere. Il trasporto degli alberi coltivati, inoltre, può generare emissioni di gas serra, soprattutto se vengono trasportati da lontano.
Al contrario, gli alberi di Natale artificiali sono riutilizzabili per diversi anni, sono fatti di plastica (principalmente PVC), che deriva da fonti non rinnovabili e spesso vengono prodotti lontano dall’Italia. La produzione e lo smaltimento di alberi artificiali, inoltre, può contribuire all'inquinamento ambientale.
In generale, gli alberi di Natale veri possono essere più sostenibili se provengono da coltivazioni locali o da foreste naturali gestite in maniera sostenibile. Tuttavia, l’albero artificiale può avere un impatto ambientale minore se riutilizzato per diversi anni.
In questo confronto ci può aiutare anche l’analisi del ciclo di vita (Life Cycle Assessment). Dai principali studi che prendono in esame scenari con filiere di produzione e distribuzione differenti emerge come l’albero naturale sia più sostenibile analizzando un solo utilizzo, mentre l’albero in plastica sintetica può diventare più sostenibile rispettivamente dopo 5, dopo 9 o dopo 20 utilizzi, in base ai diversi studi presi in considerazione.
La scelta più ecologica dipende quindi dal numero di utilizzi, dalle pratiche di produzione e dalla gestione alla fine della loro vita. Optare per alberi veri provenienti da coltivazioni sostenibili o da foreste gestite in maniera corretta, scegliere alberi artificiali di alta qualità e mantenerli per molti anni può ridurre l'impatto ambientale complessivo.
Un modo per allungare la vita di un albero vero può essere quello di ripiantarlo, come già detto, o di sfruttare servizi a noleggio che si possano prendere cura del fine vita, riservando eventualmente all’albero una seconda vita.»
Gli alberi parlano
Di sicuro non quelli artificiali, ma quelli naturali sì!
L’ecologa Suzanne Simard, professoressa di ecologia forestale alla University of British Columbia, ha tenuto un talk alla TED Conference su come gli alberi parlano e interagiscono tra di loro. La Professoressa Simard spiega come le è venuta in mente questa idea e lo studio che ha condotto nelle foreste canadesi per provare la sua tesi, e lo fa perseguendo un chiaro obiettivo: far cambiare il modo in cui i suoi ascoltatori pensano alle foreste. Ci riesce? Vi invitiamo a scoprirlo.
Trovate qui il suo TED Talk.
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A cura di Martina Fortunato, MSc in environmental economics